Romantici a Villa Borghese: il soggiorno romano di Goethe e Byron

Villa Borghese, una delle aree in cui svolgo l’attività di guida in collaborazione con l’associazione culturale Safari d’Arte, è senz’altro uno dei luoghi più famosi e suggestivi della capitale; un luogo di cultura, arte e natura (con oltre 150 diverse specie arboree) a 360°, nel quale armonia, stupore e conoscenza possono essere trovate a un tempo.
Venne fatta costruire come residenza suburbana nel 1615 dal Cardinale Scipione Borghese, amante dell’arte più che della fede, nonché instancabile collezionista. Fu lui a trasformare una “semplice” villa di periferia nella più importante raccolta mondiale di antichità e di arte. Purtroppo, quello che resta oggi di quella magnifica collezione è solo una piccola parte, seppur preziosissima, poiché un suo discendente, Camillo Borghese, marito della famosa Paolina Borghese, decise di venderne gran parte al suo illustre cognato, Napoleone Bonaparte. Ciò che resta dell’antica collezione è oggi contenuto nella rinomatissima Galleria Borghese, “la regina delle raccolte private del mondo”.

Nei giardini, le statue e i busti dedicati ad artisti, militari e politici sono numerosissime, e la gran parte venne realizzata dopo che, nel 1901, Villa Borghese divenne proprietà pubblica sotto la Repubblica Italiana, prima, e in seguito del Comune di Roma.
Ispirata dalla mia ennesima (e sempre piacevole) visita al parco, dopo aver concluso una visita guidata, ho deciso di dedicare questo primo articolo alle statue commemorative di due grandi esponenti del Romanticismo, il tedesco Johann Wolfgang von Goethe e l’inglese George Gordon Byron, in virtù del forte sentimento che essi provarono per la città di Roma e della mia grande passione per la letteratura romantica. Tramite l’analisi di questi due magnifici monumenti situati nel parco della villa, infatti, scopriremo quanto profondo fosse il legame fra questi autori e la città eterna, e l’influenza che essa ebbe nelle loro opere.

Tra il XVII e il XVIII secolo, i membri dell’aristocrazia europea desideravano completare la loro formazione con il ben noto Grand Tour, un viaggio nelle città più importanti di Francia e Italia, principalmente. Per molti, l’obiettivo più grande era proprio la città di Roma. Ricordiamo che, fra i tanti, soggiornarono a Roma anche i poeti John Keats e Percy Bysshe Shelley, nella quale entrambi trovarono la morte, e il pittore William Turner.

Johann Wolfgang von Goethe (1749 – 1832)

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Goethe nella campagna romana, 1787, Francoforte, Städelsches Kunstinstitut

Sul “Viale Goethe” di Villa Borghese, troviamo il monumento (in marmo di Carrara) in suo onore, il primo monumento dedicato a uno scrittore ad essere installato nel parco, scelto proprio per il profondo rapporto che egli aveva con Roma.
Il monumento fu un dono all’Italia dell’imperatore Guglielmo II di Germania, che fu tra i primi governanti a dedicare sculture ad artisti nazionali più o meno noti. Fu realizzato a Berlino nello studio dello scultore italiano Valentino Casali, su modello dello scultore tedesco Gustav Eberlein, e venne installato nella Villa nell’anno 1904, alla presenza del re Vittorio Emanuele III.
Goethe, già noto all’epoca per il suo “I dolori del giovane Werther“, iniziò il suo Grand Tour il 3 settembre 1786 alle 3 del mattino, con un passaporto falso, perché non voleva che nessuno sapesse di lui, desiderava viaggiare libero e tranquillo.
Le cronache stesse dello scrittore ci informano che il “Viaggio in Italia”, che lo portò a Roma il 30 ottobre del 1786 in cui restò poco più di un anno, non fu solo un soggiorno di piacere, ma una vera e propria rinascita.
Scrive a Eckermann (poeta e critico tedesco) il 9 ottobre 1828:

IMG_20180818_100737«Sì, posso dire che solamente a Roma ho sentito che cosa voglia dire essere un uomo. Non sono mai più ritornato a uno stato d’animo così elevato, né a una tale felicità di sentire. Confrontando il mio stato d’animo di quando ero a Roma, non sono stato, da allora, mai più felice.»

Dalle “Elegie romane”:
«Ditemi, o pietre! parlatemi, eccelsi palagi!
Date una voce, o vie! Né tu ti scuoti, o genio?
Sí, qui un’anima ha tutto, fra queste divine tue mura,
eterna Roma! […]»

J. W. Goethe, dall’elegia I, vv. 1-4, trad. it. di Luigi Pirandello

Il monumento di Villa borghese è alto, in totale, 8 metri. La statua, alta 3 metri, poggia su un piedistallo corinzio ornato da foglie d’acanto (in pieno gusto neoclassico) ed è accompagnata da tre gruppi figurativi posti in basso, sul basamento a gradoni.  I tre gruppi rappresentano tre scene simboliche dei principali campi nei quali spaziò l’opera di Goethe: il dramma (Oreste confessa il matricidio a Ifigenia), la lirica (Mignon ed il vecchio arpista Lotario) e la filosofia (Faust tentato da Mefisto):

DSC_0519Ifigenia e Oreste: “Ifigenia in Tauride” (Iphigenie auf Tauris) è una tragedia di Wolfgang Goethe, che riprende l’omonima del greco Euripide, redatta in prosa nel 1779, e portata poi con sé a Roma, dove la trasformò in versi. L’opera riflette tutti i principi della “Schöne Seele“, cioè l’ “Anima Bella” (cardine della filosofia del classicismo di Weimar) e anche la concezione illuministica secondo la quale l’uomo è una creatura dotata di un’inclinazione naturale al bene e che ha perso la sua nobiltà d’animo a causa dell’oppressione e dell’intimidazione. Non vi è colpa né debolezza umana che non possa essere espiata tramite atti di pura umanità:

Basta così! Non abbellire la violenza
che gode di fronte alla fragilità di una donna.
Io sono nata libera come un uomo.
Se il figlio d’Agamennone ti stesse innanzi
e tu pretendessi una cosa ingiusta
anch’egli ha una spada e ha un braccio
per difendere i diritti del suo cuore.
Io non ho che le parole, e per un uomo nobile
è bello stimare le parole di una donna.

Ifigenia in Tauride, Atto V, Scena III

Nel 1786, anno in cui, come abbiamo detto, Goethe giunge a Roma, ha inizio uno dei momenti più importanti per la letteratura tedesca: il classicismo di Weimar. Si tratta del periodo in cui Goethe volta le spalle all’avanguardia letteraria dello Sturm und Drang (“Tempesta e impeto”) e, al suo ritorno dall’Italia, trasforma la città di Weimar in un centro dall’intensa vita culturale. Il concetto di “classicismo” sta a indicare non l’imitazione formale dei tempi antichi come era per il “neoclassicismo”, bensì lo sviluppo di un sistema di norme proprie, che va oltre uno stile artistico “antichizzante” e che ha l’obiettivo di contribuire alla fondazione di un’identità culturale tedesca.

DSC_0511Mignon e Lotario: “Mignon” è una ballata che apparve per la prima volta all’inizio del quarto capitolo della “Vocazione teatrale di Wilhelm Meister“, il romanzo composto da Goethe tra il 1777 e il 1785, è rimasto incompiuto. Emerge in esso una Italia immaginaria, narrata prima che lo scrittore avesse avuto modo di visitarla e descritta quindi  in modo sognato e filtrato, per così dire, da una “nostalgia preventiva”. La malinconia di un paradiso perduto prima ancora di conoscerlo, il sentimento tipicamente tedesco del “Sehnsucht” (malattia del doloroso bramare) che il nostro Paese, meta prediletta di ogni Gran Tour, provocava negli intellettuali e aristocratici stranieri del Settecento.
Nel romanzo, Mignon è una dodicenne che il protagonista Wilhelm acquista da una compagnia di saltimbanchi italiani: strana, lunatica, a tratti infantile, ella ricorda con nostalgia il suo Paese, l’Italia, “il paese dove fioriscono i limoni”. Parla a stento un miscuglio di lingue, solo quando canta o danza è veramente libera; questa ballata è la prima che lei canta accompagnandosi con la cetra, in una lingua incerta tra italiano e francese, e noi la leggiamo come Wilhelm l’ha tradotta:

Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?
Brillano tra le foglie cupe le arance d’oro,
Una brezza lieve dal cielo azzurro spira,
Il mirto è immobile, alto è l’alloro!
Lo conosci tu?
Laggiù! Laggiù!
O amato mio, con te vorrei andare!

Conosci tu la casa? Sulle colonne il tetto posa,
La grande sala splende, scintillano le stanze,
Alte mi guardano le marmoree effigi:
Che ti hanno fatto, o mia povera bambina?
La conosci tu?
Laggiù! Laggiù!
O mio protettore, con te vorrei andare.

Conosci tu il monte e l’impervio sentiero?
Il mulo nella nebbia cerca la sua strada,
Nelle grotte s’annida l’antica stirpe dei draghi,
La roccia precipita e sopra lei l’ondata:
Lo conosci?
Laggiù! Laggiù,
Porta la nostra strada, andiamo o padre mio!

DSC_0510Abbiamo infine Faust e Mefistofele: il Faust di Goethe è un poema drammatico ispirato alla figura del Faust già presente nella tradizione letteraria europea (vedi Marlowe), al quale Goethe lavorò per circa sessantanni. L’opera è stata redatta in tre fasi, la prima, quella dell’ “Urfaust” (1773-1775), ispirata direttamente dall’opera di Marlowe e appartenente al movimento letterario “Sturm und Drang”; la seconda (1808), in cui viene aggiunto un prologo e vengono apportate modifiche significative all’Urfaust, ricade nella corrente letteraria del classicismo e viene chiamata “Faust, prima parte”; la terza (1832) celebra l’unione tra mondo classico e letteratura classicista (Faust viene sedotto da Elena di Troia), e viene chiamata “Faust, seconda parte”.
Faust, uno scienziato deluso dalla vita e dalla finitezza umana, si rivolge alla magia con la speranza che gli spiriti lo aiutino a comprendere i misteri della natura: fa così un patto con Mefistofele, con il quale intraprenderà un viaggio per «sperimentare la leggerezza e libertà della vita».

«Ed ho studiato, ahimè, filosofia,
giurisprudenza, nonché medicina:
ed anche, purtroppo, teologia.
Da cima a fondo, con tenace ardore.
Eccomi adesso qui, povero stolto;
e tanto so quanto sapevo prima.
Mi chiamano Maestro: anzi Dottore.
Sono dieci anni che menando vo
pel naso i miei scolari,
di sù di giù, per dritto e per traverso
Ma solo per accorgermi
che non ci è dato di sapere, al mondo,
nulla di nulla.
E quasi mi si strugge, ardendo il cuore.»

Faust

«Sono una parte di quella forza che desidera eternamente il male e opera eternamente il bene.»

Mefistofele

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George Gordon Byron (1788–1824)

DSC_0501Quando i numerosi scandali, dall’incesto al gioco d’azzardo, l’avevano fatto mettere al bando dall’aristocrazia inglese, Byron partì per il Grand Tour. Aveva attraversato l’Europa portandosi dietro, oltre ai suoi cavalli, una quantità impressionante di bagagli, e una specie di zoo personale: un corvo e un falco, dei grossi gatti miagolanti, una volpe e due scimmie. Eppure era difficile dissipare la sua malinconia. «Per quale ragione sono sempre stato, in ogni epoca della mia vita, un ennuyé
Lord Byron risiederà a Roma solo per ventidue giorni, dal 29 aprile al 20 maggio del 1817, in una stanza al civico 66 di piazza di Spagna, tra via Condotti e via Borgognona, un soggiorno che però nessuna targa oggi ricorda. Sono ventidue giorni intensi, in cui ritrova la voglia di scrivere, lontano dagli avvenimenti familiari dolorosi che lo hanno costretto a “fuggire” dall’Inghilterra.
Per Byron, Roma è un frammento di storia antica e grandiosa, una storia che sente, con nostalgia, irrimediabilmente perduta; egli dunque ne rivive le glorie passeggiando fra le rovine, e cavalcando al chiaro di luna nelle tanto amate campagne romane.
“Nel suo insieme di antico e moderno, supera la Grecia” scriveva al suo amico ed editore John Murray.
La statua di Byron a Villa Borghese, installata nel 1959, si trova in Via della Pineta ed è una copia di quella realizzata a Roma nel 1831 da Bertel Thorwaldsen, e che oggi si trova nella libreria del Trinity College di Cambridge. Estremamente attento alla sua immagine (aveva il costante timore di ingrassare), durante il soggiorno a Roma aveva fatto irruzione nello studio dello scultore Thorvaldsen per farsi fare un busto. Opportunamente drappeggiato in un mantello, si era messo in posa assumendo l’aria eroica dei personaggi dei suoi libri. Lo scultore, lusingato ma anche un po’ irritato, aveva così obiettato: «Non preferirebbe sedersi più comodamente? non c’è bisogno che prenda quell’espressione», «È la mia» rispose il poeta. «Davvero?»
Invece, pensò Thorvaldsen, quell’inglese non sapeva posare e si agitava continuamente, oppure assumeva una strana espressione contrita. Quando il busto fu finito, Byron osservò: «Non mi somiglia. Io ho l’aria più infelice».

Sul piedistallo di marmo su cui poggia la scultura sono riportati alcuni versi tratti da Childe Harold’s Pilgrimage, un poema narrativo basato su vicende autobiografiche (inclusa la visita a Roma) scritto da Byron tra il 1812 e il 1818, in cui i due protagonisti, disillusi da una vita di piaceri e ozi, cercano una nuova esistenza in terre straniere:

«But I have lived, and have not lived in vain; / My mind may lose its force, my blood its fire, / And my frame perish even in conquering pain; / But there is that within me which shall tire / Torture and Time, and breathe when I expire.»

                                                                                               Childe Harold, IV, CXXXVII.

«Oh Rome! my country! city of the soul! / The orphans of the heart must turn to thee, / Lone mother of dead empires! and control / In their shut breasts their petty misery. / What are our woes and sufferance? Come and see / The cypress hear the owl, and plod your way / O er steps of broken thrones and temples. Ye! / Whose agonies are evils of a day / A world is at our feet as fragile as our clay.»

Childe Harold, IV. LXXVIII

«Fair Italy! / Thou art the garden of the world, the home / Of all Art yelds, and Nature can decree.»

Childe Harold, IV. XXVI

Questo monumento / replica dell’opera di Thorvaldsen / al Trinity College di Cambridge / fu qui voluto / da ammiratori italiani inglesi e americani / per ricordare il Poeta / che amo’ l’Italia e la libertà / 1959

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Palazzo in cui Byron ha vissuto a Roma, civico 66 di Piazza di Spagna.

Tutte le foto contenute all’interno dell’articolo sono state scattate da me.

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